La maggior parte di voi, ne sono sicuro, pensa che narrare sia un’abilità, forse una tecnica che si può apprendere. In ogni caso riterrà che per raccontare bene occorra possedere una specie di talento. In conseguenza penserà anche che gli strumenti narrativi (linguistici, filmici, visuali, orali, ecc.), abbiano in qualche modo a che fare con la padronanza nella costruzione di storie, o con le pratiche che vengono insegnate, per esempio nei corsi di scrittura creativa, di narrazione filmica, e altri. Questo punto di vista, legittimo e diffuso, tende però a sottovalutare il fatto che una delle funzioni primarie del raccontare storie, si trova nel consentirci di essere al mondo attraverso una nostra identità. Si, prima di tutto il racconto ha a che fare con la nostra identità di soggetti. Soggetti pensanti, agenti, facenti. Soggetti che sono al mondo, che vivono nel mondo, nelle sue relazioni ed esistono in quanto racconto, racconto di se stessi e di altri.
Reputazione e comunicazione
Infatti, sul piano psicologico, la narrazione si situa in un rapporto molto stretto fra il proprio Io e il proprio inconscio mentre, sul piano sociale, è un modo di essere della nostra cultura, nella quale la fabulazione ha un ruolo centrale nei rapporti sociali e fra le persone e il loro ambiente. Jerome Bruner, per esempio, dice:
Se questa identità manca, l’individuo incespica nell’inseguimento di un significato. Solo la narrazione consente di costruirsi un’identità e di trovare un posto nella propria cultura. Le scuole devono coltivare la capacità narrativa, svilupparla, smettere di darla per scontata.”
Inseguire un significato attraverso la narrazione. Trovare un posto nella propria cultura. Costruire, percepire e trasmettere un’identità. È quello che facciamo ogni giorno nella nostra vita sociale. Ma se questo modo di essere al mondo è vero per un soggetto qualsiasi, che vive nella realtà quotidiana, perché non può essere riproposto anche quando lo stesso soggetto agisce all’interno delle organizzazioni (lavorative, educative, politiche e sociali)? È forse così naturale raccontarci ai nostri famigliari quando entriamo a casa per poi ridurci nello sleng burocratico – lavorativo codificato dalla nostra organizzazione? Se ci pensate bene, forse, questa sorta di “schizofrenia” non è poi così tanto… naturale. E, probabilmente, non è molto efficace nemmeno sotto il profilo produttivo.
Riscoprire la semiotica aziendale
Dunque, negli anni novanta, Bruner si interrogava sulla valenza della narrazione partendo dal sistema educativo americano. Sempre negli anni novanta e sempre dagli Stati Uniti si delineava intanto una parallela tendenza a superare i canoni semiotici più classici della comunicazione. Sulla semiotica (la comunicazione), era infatti fondata la costruzione dell’immagine dell’azienda e la sua vita interna. Il dominio dei semiotici stava (per fortuna) traballando. A una visione fondata su improbabili analisi scientifiche di una molteplicità di “codici”, cominciava a sostituirsi l’idea, fondata sulla narrazione, che i classici schemi non fossero sufficienti per allargare e per consolidare la comunicazione interna ed esterna all’azienda.
Detto in altri termini: il classico messaggio “L’azienda X è una ottima impresa che produce prodotti buoni e innovativi, di cui tu non puoi fare a meno”, sintesi di gran parte della comunicazione d’immagine esterna, non poteva essere reiterato all’infinito nelle sue varianti, espresse essenzialmente sotto forma di slogan e di immagini pubblicitarie (spot).
Il caso Apple: una community di prosumer
Il mito giocato da Apple è stato rilevante: questa grande multinazionale conservava (e conserva), un’alta fidelizzazione del cliente anche grazie alle storie che la raccontano, che contribuiscono a rafforzarne i miti costitutivi e a creare una comunità che si riconosce in essi. Nella comunità Apple c’è un gran numero di persone disposto a contribuire all’allargamento del suo mercato, a operare per aiutare chi ne utilizza i prodotti, a mettersi a disposizione degli altri utenti (fans), come se l’azienda avesse assunto il posto di una sorta di ideale dell’Io (Freud).
D’altra parte io stesso, sempre nella seconda metà degli anni novanta, come consulente di quell’azienda, avevo ideato un sistema di comunicazione nel settore education che si basava proprio sul racconto, sulla narrazione e sull’associazione dei protagonisti in un mondo di storie, che mi sembrava il solo modo per valorizzare il patrimonio specifico di una società con quelle caratteristiche e della comunità, del tutto particolare, che radunava intorno a sé.
Stm: storytelling manageriale come opportunità e strategia
Stiamo parlando di una nuova disciplina, che sta suscitando ampie curiosità. Questa disciplina può essere semplicemente chiamata storytelling oppure storytelling manageriale (STM) o, ancora, comunicazione narrativa, narrazione. Quale che sia l’appellativo il suo scopo si può considerare questo: aiutare le organizzazioni a impadronirsi di tecniche narrative come strumento di comunicazione interna ed esterna. Normalmente si dice che si tratta di raccontare storie, invece di mostrare grafici o illustrare documenti e sfornare slogan, fino ad arrivare all’idea che la gente non acquista tanto dei prodotti, quanto, addirittura, i racconti che li rappresentano. E all’interno dell’organizzazione? Li prende consistenza il concetto che chi lavora nell’azienda deve partecipare in qualche modo alla sua storia e condividerla: deve viverla mentre si sviluppa. Noi italiani potremmo chiederci se sia una sorta di ritorno, in modo più largo, raffinato e costruito, al metodo del nostro antico Carosello televisivo, nel quale i prodotti erano rappresentati da storie raccontate e la pubblicità poggiava sulla narrazione, piuttosto che sulla comunicazione tout court.
In realtà, se avete seguito ciò che scrivevo all’inizio, c’è dell’altro, molto di più del confezionamento di una semplice storia.
La componente affettiva della fidelizzazione
Infatti, la questione è la seguente: se si vuole creare un legame affettivo duraturo, fra una marca e i suoi clienti, fra un’organizzazione e i suoi dipendenti, bisogna costruire dei legami affettivi. Il legamene fisico più solido che esista in una relazione è la chimica che si sviluppa dall’affect, dall’affetto, dall’amore, dai sentimenti. Allora, ragioniamo: può la comunicazione tradizionale stabilire, codificare, addirittura creare, questo legame affettivo fra le persone e un’azienda? La risposta è semplicemente no. Può affascinare, colpire, interessare, emozionare, ma la comunicazione non può suscitare affetto, né consolidarlo. Il solo strumento suscettibile di determinare questo passaggio è, precisamente, quello della narrazione. Lo è anche per una serie di motivi psicologici che non possiamo analizzare in questo contesto. Possiamo però dire che uno slogan non racconta, ma indica, enuncia, esplicita (emittente – ricevente), dal canto suo un racconto lascia aperti numerosi spazi mentali, nella sua tipica ambiguità. Un racconto fa sognare, rispetto al desiderio proposto o rappresentato da un enunciato assertivo tipico della comunicazione pubblicitaria. Condividendone il racconto, il soggetto entra a far parte della marca e della sua storia.
Non possiamo addentrarci ulteriormente in questo aspetto che riguarda la manipolazione dei messaggi e dei fruitori. Quello che qui interessa rilevare è la forza della narrazione, che ne fa un pilastro non solo delle più recenti politiche di marketing, ma anche di management aziendale. Uscendo dal meccanismo tradizionale emittente/ricevente, la narrazione crea un rapporto che sollecita e implica la partecipazione diretta del soggetto in quanto tale, cioè in quanto persona che sta al mondo, e al mondo si sta solo attraverso una storia, prima di tutto la nostra.
Quando le storie delle persone s’incontrano con quelle dei prodotti, delle aziende, di altre persone, quando queste storie si mescolano, si confondono, si rimandano le une alle altre, allora abbiamo quello che viene definito storytelling e che, banalmente, è a volte considerato come un insieme di tecniche di comunicazione…