Torna la nostra rubrica dedicata ai contratti di lavoro. Questa volta parliamo di contratto di associazione in partecipazione che, ultimamente, vuoi per la crisi o per il fatto che il mercato è ancora “poco regolato”, ha visto un notevole sviluppo.
Negli ultimi anni, infatti, è sempre più stato scelto dai datori di lavoro che operano nel settore del commercio (ma non solo) perché per loro comporta meno rischi (il guadagno è legato agli utili dall’attività) e questo spesso a scapito dei lavoratori. contratto Ed è proprio per regolare questa prassi che la recente riforma del lavoro entrata in vigore il 18 luglio scorso, ha deciso di renderlo ancora più restrittivo. In un primo momento si pensava che sarebbe stato abolito del tutto, mentre il testo, diventato legge, ha deciso di fissarne meglio alcune caratteristiche.
Intanto una precisazione doverosa: di contratti di associazione in partecipazione ne esistono sostanzialmente di due tipi.
Uno prevede che l’associante ossia l’imprenditore determini la partecipazione agli utili (da qui il nome del contratto) dell’impresa senza che effettivamente si lavori in quella determinata attività o – ed è il caso che prendiamo in considerazione – che si partecipi agli utili dell’impresa prestando effettivamente lavoro al suo interno. Abbiamo deciso di dedicare questa puntata della rubrica all’associazione in partecipazione non a caso: come potrete leggere nelle domande cui risponde il nostro consulente del lavoro, ad una nostra lettrice è capitato che, per continuare a lavorare in un negozio, fosse stato proposto un contratto di associazione in partecipazione e lei non sapesse quanto le convenisse o no. Visto che tra i contratti è uno dei meno conosciuti, vediamo in questa sede di cosa si tratta.
Intanto, c’è da dire che l’associazione in partecipazione era ed è regolata dagli articoli 2549-2554 del Codice Civile e tra i contratti di natura autonoma, quando non c’è effettivamente abuso, è uno di quelli che tutela maggiormente il lavoratore perché la sua «retribuzione» è legata a degli utili. Condizione essenziale, quindi, perché venga applicato è che esista un’impresa che abbia dei guadagni. Se così non fosse, non ha ragione di esistere.
Altra cosa che lo contraddistingue: così come per il contratto di collaborazione occasionale, non è obbligatoria una forma scritta, ma è ovvio che la cosa migliore è, visto che si parla di partecipazione agli utili di un’attività e che il proprio lavoro è essenzialmente legato a quello, mettere tutto nero su bianco. L’abbiamo definito «lavoro autonomo» non a caso: che non ci siano vincoli da lavoro dipendente è fondamentale. L’associante non può decidere gli orari dell’associato (lavoratore), ma si deve limitare ad una generica attività di coordinamento.
La recente riforma del lavoro ha introdotto un nuovo comma prevedendo che il numero degli associati, impegnati nella stessa attività, non possa e non debba essere superiore a 3 e questo indipendentemente da quanti siano gli associanti (imprenditori). Unica eccezione che la legge consente a questo limite numerico è nel caso in cui gli associati siano legati da rapporto coniugale o siano parenti entro il terzo grado e affini fino al secondo (ossia i parenti del coniuge). Se questo numero non dovesse essere rispettato, la legge prevede che il contratto si tramuti automaticamente in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. E questo ha sollevato non poche critiche, soprattutto perché la legge almeno finora non ha precisato cosa intenda per stessa attività, se la cosa si limiti a quell’impresa in particolare o a quel settore commerciale.